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#14

 

I MISERABILI

 

(PARTE PRIMA)

At the End of the Day

Di Lucky aka Kitty

 

Era buio, tutto intorno a lei, quando aprì gli occhi sulla stanza, dalle tapparelle entravano le luci di un parco proiettando ombre chiare sul soffitto nero, sentiva i capelli spettinati e bagnati dal sudore, sentiva la pelle nuda sotto le coperte e il respiro irregolare di qualcuno accanto; come una bambina che si risveglia da un incubo, sentiva il bisogno di piangere ma stringendo le coperte convulsamente trattenne l’istinto; con una mano cercò il viso, si massaggiò gli occhi, il mascara le macchiava le guance, i segni della notte appena trascorsa stavano ancora lì a testimoniare la propria esistenza. Riaprendo gli occhi cercò con ostinazione di ricordare dove fosse, ma quel cassetto della sua memoria era stato enigmaticamente chiuso, si alzò furtivamente dal letto, cercando qualcosa da indossare, e si allontanò da quello spettacolo di cui non riconosceva le scenografie.

Il bagno era una stanzetta con le piastrelle verdastre e qualche ragnatela che si arrampicava sulle pareti, a luce spenta bagliori spettrali si proiettavano dalla finestra, la donna aprì l’acqua che scese in un getto irregolare dal rubinetto incrostato di calcare, sentiva la saliva appiccicosa impastarle la bocca che risciacquò più volte cercando di cancellare quella sensazione sgradevole e quel sapore nauseante che le infastidiva il palato, non capiva cosa stesse succedendo e, con calma solo apparente, cercava di nascondere a se stessa quanto aveva dimenticato.

Gli odori si mescolavano tra loro in un’accozzaglia sgradevole, il profumo pungente del dopobarba la portò indietro, al ricordo quasi estraneo di un infanzia che anche lei, in qualche modo, aveva vissuto; la fragranza che invadeva il bagno di casa sua, quando era ancora una ragazzina, l’aroma speziato e agrodolce del profumo del padre che imponeva la sua presenza.

Scossa dalle immagini che cominciavano ad affluire al cervello, disordinatamente raccolse nelle mani quanta più acqua poté e se la gettò con forza in viso più volte, rimase qualche istante con il naso gocciolante rivolto verso il basso, poi trovò il coraggio di alzarsi e guardarsi nel piccolo specchio imperlato di schizzi. Davanti a se vide il fantasma pallido e spettinato del suo viso, con i suoi strani e ricercati gesti da attrice perduta mosse una mano per toccare quello spettro irriconoscibile, sperando che la figura riflessa non seguisse i suoi movimenti rivelandosi un illusione, ma quando le sue dita toccarono le stesse punte specchiate sulla superficie liscia la donna ritrasse la mano e, con uno scatto convulso, uscì dal bagno appoggiandosi alla parete esterna.

Lo spazio era angusto, la casa puzzava di umido e muffa ed era arredata con superficialità e noncuranza, l’intonaco e la vernice mancavano in più punti lasciando chiazze grigiastre sulle pareti chiare delle quali nel buio non riconosceva il colore, odore di incenso e fumo di candele ormai spente si spargeva lungo il corridoio che la donna percorse a passi lenti sul pavimento impolverato. La cucina si aprì davanti ai suoi occhi, piccola anch’essa, il poco spazio era occupato da un televisore appoggiato su una cassa di legno, un frigorifero, un tavolo economico, e un piano da cottura arrugginito; le mani cominciarono a rovistare febbrilmente nei cassetti trovò un bricco e del caffè in polvere, i ricordi cominciarono ad affollarsi nella sua mente logorandola senza che lei potesse fare nulla. Doveva essere notte fonda, vicino al televisore c’era un orologio del quale non riusciva a leggere le lancette, pensò di accendere la luce, ma non lo fece temendo il risveglio di persone indesiderate.

La donna si guardò attorno con attenzione, osservando la casa sconosciuta e tornando lentamente alla realtà, alla disperazione di quella mattina stanca, a quell’ambiente scuro ed estraneo; il caffè si sciolse in liquido nero nell’acqua bollente, dai vetri chiusi si udiva di tanto in tanto il rumore di un’auto sfrecciare nella strada sottostante. Immagini sconosciute di delitti e peccati ignoti affollavano la sua mente, domande incompiute, risposte insufficienti, cerchi di vuoto che si aprivano uno dopo l’altro scoprendo parole abbozzate, frasi dal senso abilmente celato in labirinti di oggetti e sussurri, spirali che si inarcavano su se stesse, modellavano, deformavano, scendevano verso il basso senza cercare un punto di contatto con la realtà, senza trovare una fine; la giovane si sentì mancare, come tante altre volte le era successo quando cercava di affacciarsi sull’oceano inesplorato della sua mente, cercò una sedia annaspando nel vuoto; la testa girava freneticamente, con gestualità dolorosa e calcolata si portò le mani alla fronte massaggiandola con energia, cercando di far smettere il sibilo che le perforava la testa.

Il fischio penetrante non accennava a diminuire, al contrario l’intensità e il tormento continuavano ad aumentare, al limite della sopportazione la donna gettò un grido soffocato e si accasciò sul tavolo stringendo dolorosamente gli occhi; il caffè continuava a vorticare nella brocca, a fatica cercò di rialzarsi ma una voce arrivò roca dalla stanza da letto, l’uomo che prima le dormiva accanto respirando rumorosamente doveva essersi svegliato, sentì un brontolio provenire dalla camera, le parole biascicate dell’uomo la raggiunsero con terrore

“Mary… tesoro” la voce era bassa, forzatamente dolce, meschinamente lasciva, la ragazza si scrollò il dolore dalle spalle cercando di combatterlo, perché conosceva il suo nome? Si pose le domande senza in realtà desiderare di ricevere quelle risposte che, in cuor suo, già conosceva e rifiutava. I passi si avvicinarono lungo il corridoio affacciandosi alla porta della cucina “che succede?” l’uomo accese la luce in un lampo bianco, Mary stava cercando di proteggersi dal lato opposto del tavolo nella vana speranza di poter spiegare quanto era accaduto, ma gli occhi pesanti e spudorati di lui la fissavano con evidente stupore e desiderio

“avanti piccola… è tardi, che ci fai in piedi?” disse piano aggirando il tavolo per avvicinarsi a Mary che fece lo stesso per sfuggirlo… i suoi occhi, lo sguardo, i baffi e la barba ruvidi, si… qualcosa ricordava, qualcosa di lontano e irraggiungibile

“devo… devo andare via” l’uomo la guardò ironico

“con quegli stracci addosso non farai molta strada…” disse indicando la camicia che copriva a malapena il corpo pudico “avanti… fai la brava” le vocali trascinate, la voce flautata come stesse parlando con un cucciolo poco ubbidiente

“…no” Mary cercò con gli occhi una via d’uscita, l’emicrania continuava a frustarle le tempie con forza, con uno schizzò rapido lasciò la sua posizione di difesa dietro al tavolo per gettarsi sulla porta nella speranza di poter uscire, ma l’uomo intuì il suo prevedibile tentativo e si piazzò davanti al passaggio sbarrandole la strada e serrandole prontamente la mano sul polso

“non è ancora ora cenerentola…” la strinse a se con forza sollevandola da terra “il tuo completino da notte stuzzica le fantasie del maschio medio, sai?” la schernì mentre Mary cercava di divincolarsi dalla stretta dell’uomo che si fece più solida, impossibile da sciogliere per la debole ragazza.

Poi, ad un tratto, la stanza riprese a vorticarle intorno, gli occhi si svuotarono di ogni espressione, il corpo si fece debole, i nervi e i muscoli si rilassarono come fosse svenuta, ma Mary era ancora cosciente. In quegli ultimi istanti di lucidità la donna trovò tutte le risposte che aveva insistentemente cercato quella mattina, torse il collo all’indietro lasciando cadere la testa e la massa scomposta dei suoi capelli, riaprì gli occhi come rinvigorita da una nuova e misteriosa forza, il flash del lampadario sulla sua testa e le spaventate parole balbettate dall’uomo che ancora la stringeva, furono il suo ultimo ricordo, un sorriso mordace e malizioso si disegnò sulle labbra rosse e Mary tornò nel buio.

 

 Di quello che era successo la sera prima Mary non aveva memoria alcuna, come ogni volta che succedeva il ricordo nebuloso della notte trascorsa si era perso, ma questa volta il profumo caldo di rose che la avvolse al suo risveglio era quello familiare che invadeva l’appartamento.

In cucina, una donna che Mary credeva di aver dimenticato da tempo, armeggiava tra i fornelli preparando un infuso dall’odore poco invitante e riservando, alla giovane che dormiva nell’altra stanza, meccaniche  e amorose attenzioni

“hai dormito bene?” la voce vellutata si schiuse dalle sensuali labbra della donna non appena Mary mise piede in cucina, lei si portò una mano alla testa socchiudendo gli occhi come concentrandosi per far sparire il dolore che le attanagliava le tempie

“ho… mal di testa”

“bevi questo, è ottimo per il dopo sbornia” il tono carezzevole, il viso magro e allungato e i lunghi riccioli castani e caldi che le ricadevano sulle spalle erano in continuo contrasto con i suoi modi di fare melodiosamente femminili e inaspettatamente bruschi; non era abituata a concedere nulla di più che il suo corpo, e l’affetto si tramutava in gesti non del tutto naturali ma sinceri

“…mi sono ubriacata?” domandò Mary pettinando i lunghi capelli rosso mogano con le dita e cercando di districare alcuni nodi, la donna sgranò gli occhi felini assumendo un aria incredula e al contempo sensuale

“ubriacata è un eufemismo sorellina, puzzavi di alcool talmente tanto che se avessi acceso un fiammifero avresti preso fuoco…”

“io… non lo ricordo” Mary abbassò gli occhi cercando un appiglio al quale sorreggersi e trovò la mano pallida della sorella che con un gesto morbido le stringeva il viso

“lo so… piccolina lo so”

Helen era la maggiore delle sorelle Walker, seppur di qualche anno più grande di Mary entrambe erano sempre state forse troppo deboli per il mondo che si stava loro presentando, ma Helen, una volta lasciata la casa dove era cresciuta sotto la costante onnipresenza del padre e la tacita assenza della madre, era riuscita a crescere, distogliendo lo sguardo da un passato che la aveva sempre tormentata, e trovando da sola quella forza e quella determinazione che erano diventate la caratteristica fondamentale del suo carattere un po’ adulto, autorevole e materno.

 “ti ho trovata vicina al locale mentre uscivo dal lavoro” continuò spezzando il silenzio “eri già tornata in te ma non mi hai riconosciuta, per poco che non ho dovuto caricarti sulle spalle per convincerti a seguirmi” Mary lasciò di nuovo cadere gli sguardi a terra

“mi spiace Nellie” la giovane donna cercò quella punta di maternità affondata nel suo spirito e carezzò la sorella con lo sguardo, rassicurandola

“è mio dovere proteggerti” sospirò incontrando assillanti ricordi sepolti, e aggiunse: “avrebbe dovuto essere sempre stato così” Mary rialzò timidamente lo sguardo accennando un sorriso come ringraziamento e ritrovando in quei gesti qualcosa che poteva assomigliare ad una famiglia

“ora sbrigati però” la ammonì la sorella ricevendo uno sguardo incredulo “arriverai tardi al corso se non ti vesti” Mary allora si illuminò di apprensione e sorpresa

“me ne ero dimenticata!” esclamò cominciando a guardarsi intorno per riorganizzare un mucchietto di idee mentre Nellie rideva di gusto nel vedere i suoi frenetici preparativi.

Mary sparì dietro la porta scardinata del bagno e ne uscì  pochi minuti dopo aggiustandosi un raffinato tubino grigio sui fianchi; di corsa indossò una giacca nera che dava un tocco di professionalità al suo abbigliamento, sfilò un foulard dal cassetto e afferrando le chiavi uscì chiudendosi il portone alle spalle.

Nellie la guardò stupefatta prepararsi e uscire ad una velocità lampo per poi rientrare di gran corsa, andare nella sua stanza, e uscirne con un blocco di fogli stampati in bocca legando la sciarpa di organza grigia al collo, poi tirò un sospiro e si fermò sulla porta di cucina

“come sto… sono abbastanza seria?” Nellie la guardò intenerita

“l’insegnante più bella che abbia mai visto” Mary la abbracciò con slancio

“fammi gli auguri” le sussurrò intimamente all’orecchio

“in bocca al lupo… e non esagerare col frustino” rise Nellie, mentre la sorella la salutava con un gesto volando giù dalle scale

“crepi… torno per cena” ma la risposta si perse nella tromba delle scale come le ultime parole sussurrate da Helen che avevano il profumo triste di un tragico presentimento

“lo spero Mary… lo spero tanto”

 

Il rumore dei tacchi sull’asfalto sporco della stazione metropolitana ritmava i passi di una Mary un po’ nervosa; con le mani intirizzite dai primi freddi stringeva fotocopie di sceneggiature e libretti: tornava, a passi lenti, un leggero autunno che in quella New York bassa, periferica e un po’ barocca, portava pioggia e nebbia.

Da quando Mary aveva ricominciato a costruire la sua vita da un angolo buio dei bassifondi, la città le sembrava sempre più scura e nebbiosa, avvolta da un mantello di fumo in cui riluceva il sorriso metallico dei grattacieli, grigio fantasma dell’Opera giocava con le ombre e le passioni della sua povera Christine e Mary ricominciava a sognare un palcoscenico tra quelle strade gremite di gente che passava spedita senza curarsi di chi urtava. Ma le ombre di Mary erano troppo radicate perché una favola e qualche sogno potessero annientarle, la donna pensò di sentirsi stranamente simile a quella città: agitata, irrazionale, frenetica, avvolta da una nebbia tanto fitta da non riuscire a vedere dentro di se…

Camminando avanti e indietro sulla banchina in una retta immaginaria lentamente sprofondò, cercò di ripensare a tutto quello che Nellie le aveva solo raccontato, scavando per trovare i particolari che la sorella le aveva sicuramente nascosto, ma la martellante emicrania che segnava quei giorni riprese a battere ancor più forte; come un avviso, un divieto, l’intensità del dolore aumentava ogni volta che Mary cercava di chiarire le sue amnesie.

Cercando di vincere la sofferenza e sforzandosi di trovare nuove e sconosciute risposte, Mary tornò con la memoria alla notte appena trascorsa, al suo risveglio in quella casa, al buio delle stanze, al disordine, l’odore del caffè che si muoveva languido nella caraffa di vetro si insinuò nelle sue narici come se non si fosse mai mossa da quel tavolo, chiuse gli occhi, rivide la stanza con più chiarezza, il dolore lancinante, la debolezza delle gambe che non reggevano il suo peso, tassello per tassello cercò di ricostruire quel mosaico capriccioso, le immagini tornarono lentamente a galla, i gesti, le sensazioni, le mani sudate di un uomo che non conosceva, la stretta feroce, la voce volgare, lo sguardo eccitato… Mary riaprì gli occhi spaventata e confusa, con uno scatto premonitore si guardò le mani e sotto le unghie vide il sangue ormai secco, unico testimone dei graffi che aveva lasciato sulla pelle dell’uomo per liberarsi dal suo abbraccio, l’ultimo ricordo che Mary aveva prima di sprofondare in un baratro di pericolosa inconsapevolezza.

Due treni della metropolitana le passarono davanti e si fermarono, Mary non se ne accorse nemmeno; concentrata in una sorta di trance fissava le unghie e il sangue rappreso che segnava una riga marrone, cercando di dimenticare ricordando gli ultimi istanti lucidi di una notte che sfumava lontano, nel fumo di New York

 

I suoi capelli sciolti avevano l’odore umido della città in quel pomeriggio appena cominciato, Mary non sapeva bene quello che sarebbe successo, o cosa sarebbe riuscita a fare di quella sua strana e scomposta vita, ma quando le si era presentata l’opportunità di rinascere, sola in un bar di Manhattan, quando aveva ritrovato la mano della sorella e una ragione nuova per cercare di combattere, Mary aveva pensato di tentare, un'altra volta ancora, di essere normale. L’annuncio economico sul giornale, stampato a caratteri piccoli ma leggibili, era stato attaccato sul frigorifero con una calamita rossa e un brindisi di spumante a buon mercato, come la celebrazione di un nuovo e più fortunato inizio.

La donna, avvolta nel suo vestito grigio che si confondeva con gli asfalti e i palazzi, era in straordinario ritardo già il suo primo giorno di lavoro, controllò nervosamente l’indirizzo che stringeva in mano e alzò la testa, la porta era quella giusta.

Salì i gradini senza distogliere lo sguardo dall’insegna dorata, e solo quando fu davanti all’entrata chiuse gli occhi per trovare tutto il coraggio di cui disponeva, mossa da un impulso inconscio suonò il campanello senza usare troppa insistenza, attese il che aprissero ed entrò ostentando una falsa sicurezza.

La sala A dell’associazione “F sharp” di musica e teatro era, come le aveva indicato la ragazza della guardiola, infondo ad un lungo corridoio, le pareti chiare mandavano un riverbero asettico trasportando Mary indietro nel tempo, all’odore di plastica dei muri che chiudevano il manicomio. Si fermò, esitando, a metà del corridoio; il ritardo aumentava, ma in quel momento la donna non riusciva a pensare ad altro se non alla sua inadempienza per quel compito… il teatro, sogno e ricordo intatto di una vita forse troppo lontana per riprenderla con così tanta facilità, Mary strinse la borsa tra le mani cercando di farsi forza e avanzare lungo quel tunnel, verso la sua aula, verso il suo sogno e la sua promessa, sigillata da una speranza azzardata, con un paio di bicchieri di vino in più sullo stomaco e alcool nelle vene.

Non le era permesso rinunciare, non sarebbe stata perdonata l’ennesima fuga, Mary cercò dentro di se la risolutezza di attrice stanca e il coraggio che fino a poco tempo prima non immaginava di avere, la bambina che era si era sciolta dal torpore stava crescendo.

Non toccava un copione da anni, solo a memoria si trasformava, davanti allo specchio di casa sua, nei personaggi che debolmente o con impeto clamoroso erano stati parte della sua carriera, recitava le battute che non si erano mai cancellate dalla sua mente.

Aprendo quella porta Mary avrebbe ritrovato l’emozione che a lungo aveva fatto fremere il suo spirito, l’intensità della recitazione, e questa volta la avrebbe insegnata agli altri, avrebbe visto loro lottare su un palcoscenico con la gestualità e le parole, li avrebbe diretti e guidati di lontano, regista di un nuovo spettacolo, responsabile di un nuovo lavoro, avrebbe deciso le sceneggiature, assegnato le parti, in quel gioco di maschere, luci e suoni che è uno spettacolo, avrebbe visto ragazzi sul palco muoversi al suo posto, ma con i suoi insegnamenti come bagaglio, avrebbe aspettato che la platea si zittisse lentamente mentre le luci si spegnevano, magiche leggi mai scritte del teatro, avrebbe osservato di lontano gli applausi a scena aperta, avrebbe applaudito lei stessa e forse sarebbe salita sul palco assieme a quelli che, se decideva di girare la maniglia ed entrare, avrebbe potuto chiamare i suoi ragazzi…

Mary sospirò di nuovo profondamente, era stata felice quando la avevano chiamata per quel lavoro, era stata entusiasta e agitata, Nellie le aveva detto di non averla mai vista con un sorriso così bello… non poteva rinunciare.

Con un gesto deciso e meccanico abbassò la maniglia della porta, nella sala il borbottio sommesso dei ragazzi si smorzò di colpo e tutti si voltarono nella sua direzione, Mary sentì di nuovo di non farcela, ma le parole uscirono da sole

“Scusate il ritardo” modulò la voce come le insegnavano quando era lei una studentessa “io sono Mary, la vostra insegnate di teatro”

 

Tre colpi suonarono con ritmo incerto sulla porta dell’aula, Mary stava riordinando i fogli e gli appunti con i quali aveva imbastito quella prima lezione, i ragazzi erano quasi dei bambini, ma sembravano avere le capacità e l’interesse per portare avanti un buon lavoro. La donna alzò gli occhi distraendosi e guardando la porta come se, così facendo, avrebbe scoperto prima chi vi fosse dietro

“avanti…” la porta si aprì lasciando entrare una persona che Mary credeva non avrebbe più rivisto, la camminata era, forse, un po’ più stanca di come la ricordava, il bastone ben saldo nella mano indicava ostacoli su una strada che lui conosceva, forse meglio, di chi poteva vederla con i propri occhi, lenti scure coprivano la sua cecità e con la sua classica eleganza indossava un completo color sabbia

“Mary… Mary Walker?”sperando con tutte le sue forze che gli ipersensi dell’uomo che le stava di fronte non percepissero il nervoso tremolio delle sue dita, Mary assentì timidamente e sul volto dell’uomo si dipinse un enigmatico sorriso

“sono venuto a sapere per caso che una certa Mary Walker teneva questo corso… e mi chiedevo se eri davvero tu” l’odore di cannella, passato e ricordi, si insinuò dolcemente acre nelle sue narici “hai fatto… dei progressi dall’ultima volta che ho avuto tue notizie” le mani della donna continuarono a tremare, il solito mal di testa cominciò a minacciare le sue tempie pulsando piano, il cuore batteva troppo forte perché lui non se ne accorgesse

“ce la sto mettendo tutta…” l’emicrania che si faceva spazio, la spaventava e comprometteva il suo già precario autocontrollo “ho chi mi da una mano…”

“ero… curioso” Matt si giustificò prontamente non capendo a che punto la realtà finisse o a quale iniziasse la bugia.

Aveva casualmente trovato, qualche giorno prima, l’annuncio su un volantino appeso ad una bacheca, un corso di teatro tenuto dall’insegnante M. Walker, e quel nome aveva subito risvegliato vecchi ricordi, ansie dimenticate, poi qualcos’altro lo aveva spinto a cercare l’indirizzo e gli orari delle lezioni; c’era una forte curiosità che lo animava, capire dove fosse ora quella donna così insolita e dal profumo tanto dolce e pungente al tempo stesso “…si di sapere come te la stavi cavando” la smorfia indefinita che era calata sul viso di Mary come una maschera si sciolse in un appena accennato sorriso

“non decido io se sono o meno una brava insegnante…”

“già il fatto che tu insegni è importante” il silenzio che si insinuava tra una frase smozzicata e l’altra era più che imbarazzante, ma entrambi riuscivano a dirigere amabilmente la situazione senza rischiare di ferirsi con le punte acuminate dei dissapori e dei rancori passati, poi Mary buttò casualmente l’occhio sull’orologio e, scoprendo che il suo ritardo era di nuovo più che abbondante, trovò la scusa per districarsi da quel discorso fatto di silenzi e frasi impacciate senza raccontare malcelate bugie

“accidenti… è tardissimo! Nellie mi ucciderà stavolta” esclamò la donna non appena posò gli occhi sulle lancette

“Nellie..?”

“Helen mia sorella, le ho promesso che sarei tornata per cena… è con lei che vivo ora” Mary riordinò con rapidità le carte buttandole alla rinfusa nella borsa nera e allontanandosi dal tavolo in tutta fretta “scusami ma devo proprio scappare, grazie per… esserti preoccupato” una fitta colpì la donna sulle ultime parole pronunciate, e cercando di non mostrare il dolore si appoggiò allo stipite della porta, ma Matt Murdock non poté non accorgersi del suo movimento innaturale

“tutto bene?” domandò voltandosi nella direzione da cui aveva sentito provenire il rumore, Mary riprese l’equilibrio e fece un passo per accertarsi che l’emicrania fosse sparita poi si voltò verso lo stranamente premuroso ospite

Lo sguardo che lui non poté vedere era colmo di preoccupazioni, gli occhi erano segnati da sofferenze fisiche e morali profonde, troppo recenti per essere dimenticate, troppo nascoste per essere ricordate, ma presenti

“io si… Matt, io si” rispose enigmaticamente la donna lasciando intendere, con quella mezza frase, tutta la preoccupazione che aleggiava sul suo volto che l’avvocato Murdock non avrebbe potuto vedere.

L’uomo le si avvicinò a passi sicuri e, frugando nella tasca, ne tirò fuori un biglietto bianco scritto in blu scuro

“prendi questo” disse porgendolo alla donna “e se avessi bisogno di me non esitare…” Mary prima indugiò, poi con un gesto deciso prese il cartoncino e lo infilò nella borsa, una nuova fitta, più leggera della prima, le attraversò la testa

“spero di no, Matt…” e senza aggiungere altro uscì precipitandosi alla fermata della metro.

 

 

 FINE PARTE PRIMA

 

Note:

 

Helen Walker è un personaggio creato dalla sottoscritta e, di conseguenza, appare per la prima volta in questo racconto